Comincia tutto lì, tra infanzia e adolescenza, quando il destino è tutto già segnato , quando qualcosa ci lascia per sempre e qualcos’altro ci minaccia o ci seduce. Cominciano a quel punto le delusioni, le rabbie, le passioni, le illusioni, le paure. A quel punto qualche sogno finisce, qualche altro compare. Bisogna imparare tutto a quel punto, tra infanzia e adolescenza, quando le ossa cominciano a indurirsi quando ogni graffio lascia cicatrici che poi saranno coperte da ferite più profonde, molto più dolorose. A quel punto, tra infanzia e adolescenza, cominciano le storie che Bruno Brancher racconta in Tre monete d’oro. Quelle storie che sono cumuli di esperienza, stratificazioni della memoria, autoritratti e ritratti di volti che il tempo ha sottratto alla vita e che la scrittura ricrea. Come ogni uomo che ha vissuto molto, Brancher sapeva essere beffardo e irridente nei confronti di chiunque, soprattutto di sé. Sapeva distinguere l’essenziale dal superfluo, sapeva evitare i colpi, aggirare gli ostacoli, tenere in mano la penna come il coltello, fuggire da qualcosa, da qualcuno, perché da ragazzino aveva imparato a saltare i muri dei riformatori. Il cesso sul ballatoio della casa sul Naviglio. L’uomo che sale le scale arrogante e sicuro. Tutto questo è accaduto. Tutto questo è passato. Il lavoro nella miniera in Belgio, la galera per le rapine, le evasioni, la Legione Straniera, le spaccate. Brancher era specialista delle spaccate. Spaccava con una pietra le vetrine delle gioiellerie, attratto dai cocci luccicanti che forse gli ricordavano le tre monete d’oro, simbolo interiore d’infanzia e di fortuna, che come in una fiaba si trovano, si danno in pegno, si perdono, si ritrovano, si riperdono.
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